Lavoro & DignitĂ 

Settimana scorsa hanno scioperato per tre giorni i 75mila operatori sanitari della Kaiser Permanente, la più importante azienda privata senza scopo di lucro del settore. È stato il più grande sciopero sanitario nella storia degli Stati Uniti. È l’ultimo di una serie impressionante di scioperi che stanno scuotendo il mondo del lavoro americano. Se le luci della scena erano state occupate dallo sciopero dei lavoratori dell’industria cinematografica a stelle e strisce, nell’ombra altre centinaia di migliaia di lavoratori hanno incrociato le braccia negli ambiti più disparati. I baristi di Starbucks, il personale alberghiero della California, gli assistenti di volo, i portuali della West Coast, solo per citarne alcuni. 

 

L’altra novità è che i lavoratori vincono. Esemplare il caso dei 340mila corrieri di Ups. Gli è bastato minacciare uno sciopero di dieci giorni che sarebbe costato all’azienda 7 miliardi di dollari e le loro rivendicazioni sono state accettate. In sciopero ora ci sono gli operai delle Big Three dell’industria automobilistica americana: Ford, General Motors e Stellantis. Non era mai successo. Le rivendicazioni dello sciopero proclamato dal sindacato United automobile workers (Uaw) sono pressoché identiche alle agitazioni degli altri rami.


Sostanziosi aumenti (il 40% su quattro anni), cancellare i contratti precari, abolire i turni massacranti e introdurre la settimana lavorativa di quattro giorni.

 

Per meglio capire quanto stia succedendo oltre Oceano, ne parliamo con un profondo conoscitore della realtà statunitense, l’economista e ricercatore sociale Christian Marazzi.

Christian Marazzi, come si spiega l’impressionante ondata di scioperi negli Stati Uniti?
È la somma di fattori contingenti e di lungo periodo. Il Covid, il rilancio economico post pandemico impresso dalle misure statali miliardarie, il pieno impiego e il fenomeno delle grandi dimissioni sono fattori contingenti che hanno rafforzato il potere contrattuale degli operai. Non vanno inoltre dimenticate le notevoli misure sociali poste in essere durante la pandemia da Trump e da Biden. Grazie a queste, molti working poor hanno ottenuto temporaneamente redditi superiori ai loro salari. Le ragioni di lungo periodo risiedono invece nella crescente diseguaglianza degli ultimi quarant’anni. Tra il 1979 e il 2022, il reddito dell’uno per cento più ricco degli Stati uniti è cresciuto del 145%, mentre quello del novanta per cento della popolazione solo del 16%. La combinazione dei fattori congiunturali e di lungo termine spiega l’esplosione della conflittualità sui posti di lavoro che sta rafforzando i sindacati americani. C’è chi si inquieta, naturalmente. Ma l’economista Robert Reich li ha rassicurati, spiegando loro che furono gli scioperi degli anni Trenta-Quaranta a far nascere la classe media americana, fino ad allora quasi inesistente. La lotta della classe operaia, dentro e contro il capitale del primo Novecento, generò dei progressi per l’intera società, realizzatisi materialmente nei “gloriosi trent’anni” del Dopoguerra. Negli ultimi trent’anni di neoliberismo, invece, la classe media, e non solo americana, è andata prosciugandosi, scomparendo.


Questa ondata di scioperi potrebbe dunque segnare l’inizio di una nuova epoca storica?
Non è così scontato. Oltre al ritorno del protagonismo della classe operaia, altri fattori sono necessari. Negli Stati Uniti del 1935 con Franklin D. Roosevelt alla presidenza, fu promulgato il Wagner Act, una legge che promuoveva la contrattazione collettiva e la libertà di associazione sindacale, con forti tutele contro le discriminazioni razziali, incoraggiando al contempo investimenti pubblici importanti. Oggi, con l’Inflation Reduction Act promosso dall’amministrazione Biden volto a definire la nuova politica industriale “verde” americana, si assiste a un ritorno alle politiche keynesiane d’intervento statale sperimentate durante la Grande Depressione. A far difetto rispetto agli anni Trenta del secolo scorso, però, è il contesto legislativo sul lavoro negli Stati Uniti, uscito fortemente indebolito dal trentennio neoliberista. C’è dunque bisogno di una spinta legislativa che possa garantire la continuità delle mobilitazioni operaie in corso. Segnali in questo senso purtroppo non s’intravedono, né coi Democratici e men che meno coi Repubblicani.


Quale valenza assume in questo contesto lo sciopero in corso nelle tre grandi case automobilistiche?
Lo sciopero nell’industria automobilistica americana s’iscrive nell’ondata di scioperi che sta travolgendo l’America. I lavoratori di Hollywood, i corrieri Ups, le infermiere, i camerieri di Starbucks per citare alcuni dei più noti degli 800 scioperi registrati negli ultimi venti mesi negli Stati Uniti. Gli scioperi alla Ford, la General Motors e Stellantis, assumono però una valenza particolare. Le rivendicazioni sindacali sono un aumento dei salari del 40% nei prossimi quattro anni e il passaggio alla settimana corta. Ricordo che nel 1926 fu la Ford a introdurre la settimana di cinque giorni, un modello che poi si estese all’intero mondo occidentale. Se gli operai americani dell’industria automobilistica dovessero vincere su questo fronte, il loro esempio potrebbe dare un forte impulso su scala internazionale alla rivendicazione della settimana corta.


Ci sono delle possibilità di riuscita?
Vedremo. Al momento è interessante osservare la tattica di lotta adottata. È uno sciopero a singhiozzo, chiamato “Stand up Strike”. Scioperano alcuni settori mentre altri proseguono a lavorare, seppur con grande difficoltà. È una tattica molto efficace poiché mette in crisi il modello produttivo dominante nel mondo, quello del “Just on time” (“giusto in tempo”, ndr), rendendo impossibile programmare la produzione in assenza di certezza delle forniture nel breve termine.
L’industria automobilistica sta vivendo un periodo delicato nel passaggio dal carburante all’elettrico, dove le ripercussioni sull’occupazione potrebbero essere importanti. Ciò potrebbe essere uno svantaggio per gli operai delle Tre Grandi case automobilistiche.
Il problema della transizione verde nell’industria automobilistica si pone anche a livello di concorrenza cinese, dalla tecnologia molto avanzata in questo campo. Riducendo ai minimi termini, si mettono in concorrenza gli operai americani o europei con quelli cinesi, favorendo infine il populismo di qualsiasi tipo esso sia. Alcuni economisti suggeriscono che convenga ragionare in termini di standard di qualità per contrastare la produzione di auto elettriche altamente dannosa per l’ambiente e i lavoratori, introducendo delle tariffe all’importazione mirate su questi nuovi standard. Anche in questo caso si evidenzia la necessità di legare i processi di sindacalizzazione al processo legislativo per tutelare il mondo del lavoro. Altrimenti, questa ondata di scioperi negli Stati Uniti rischia di durare il tempo di un’estate.


Nel contesto americano s’inserisce il fenomeno delle “Grandi Dimissioni”, dove in soli due anni quasi 100 milioni di lavoratori hanno abbandonato il lavoro alla ricerca di condizioni migliori. Un fenomeno riscontrabile in molte parti del mondo, Italia compresa, come descritto nel recente libro di Francesca Coin, docente alla Supsi, che sta riscuotendo tanto successo. Sociologicamente parlando, sta cambiando il nostro rapporto col lavoro?
Di questo ne sono convinto. C’è qualcosa di difficilmente spiegabile in termini puramente quantitativi, seppur essi siano importanti. Il rifiuto del lavoro “liberista” è planetario. La pandemia ha impresso una svolta di cui adesso vediamo gli effetti. È in atto il collasso di un modello dell’organizzazione del lavoro post-fordista consumatosi negli ultimi trent’anni, chiamato oggi a fare i conti con la crisi esistenziale del lavoro. Alla favola del dedicarsi totalmente al lavoro per avere un futuro radioso, ormai nessuno crede più. Se a questo aggiungiamo la preoccupante crisi climatica, il futuro appare a dir poco desolante. Il rifiuto del modello di lavoro e l’urgenza di salvare l’ambiente, stanno imprimendo dei cambiamenti profondi nella società, rivoluzionando la scala di valori di sistema.


Dall’America alla Svizzera. Alla richiesta di aumenti salariali in grado di compensare quanto perso negli anni, il padronato svizzero obietta che si alimenterebbe la spirale del rialzo dei prezzi, facendo lievitare così l’inflazione.
La Banca centrale europea ha stilato un rapporto sulle responsabilità padronali dell’inflazione, dimostrando che la spirale inflazionistica non è stata alimentata dal binomio salari-prezzi, ma da quella profitti-prezzi. Stando alla Bce, come ad altri studi recenti, le imprese hanno approfittato del momento per aumentare i prezzi per ottenere dei profitti più elevati. La presunta spinta salariale non è responsabile dell’aumento dei prezzi generale, tant’è che resta inferiore all’inflazione dal punto di vista del salario reale. Dal profilo economico, non voler concedere degli aumenti ai lavoratori per evitare l’inflazione, non regge.

Pubblicato il 

12.10.23
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