La mano invisibile

Quanto parlare, scrivere, discutere, imprecare negli scorsi giorni sull’aumento, vertiginoso, dei premi delle casse malati o, più genericamente, dei costi della salute. Per un verso o per l’altro, quasi in sincrono, appare che il male (se così vogliamo chiamarlo) non è solo svizzero, è generale, quasi fosse una sorta di cancro del sistema che abbiamo adottato o in cui siamo immersi. Stacchiamoci, per un momento, dalla nostra situazione e consideriamo due vie d’uscita suggerite o già praticate altrove.


La prima è il controllo ferreo (o una maggior trasparenza, si osa dire in Svizzera) del prezzo dei medicamenti. Sapendo e constatando che là si trova una delle cause degli alti costi della salute, anche negli ospedali. Le motivazioni che li giustificano sono sia i tempi e gli alti costi della ricerca, sia alle volte il mercato ristretto per tipo di patologia. Dice però il presidente americano Biden: “Da troppo tempo gli americani pagano molto più di non importa quale altra economia per i medicamenti su ricetta medica, mentre l’industria farmaceutica realizza sempre profitti da primato”. È quanto potrebbe dire, parola per parola, il presidente della Confederazione elvetica. Che lo dice, un poco di transenna, convenendo con i dati e confronti di Mister Prezzi.

 

Biden ha  minacciato, categorico: “Quest’epoca è finita”, ed è passato all’attacco cominciando con dieci medicamenti cosiddetti “blockbuster”, tra i più venduti negli Stati Uniti (per il diabete, l’insufficienza cardiaca, per prevenire le embolie) obbligando, già dall’inizio di ottobre, le maggiori industrie farmaceutiche (da Eli Lilly a Pfizer, AstraZeneca, Johnson&Johnson, Bristol Myers Squibb) a rinegoziarli tutti con l’amministrazione. La legge che dà questo potere al programma federale Medicare (passata non senza grandi resistenze e opposizioni) rinegozierà dapprima i prezzi di 60 medicamenti e poi quelli di altri venti supplementari ogni anno (si legge in un comunicato della Casa Bianca). Entro il 2031 per questa sola misura sui medicamenti venduti in farmacia (“maturi, senza generico o biosimilare”) ci sarà un risparmio di 14 miliardi di dollari di  sole spese pubbliche, destinabili quindi al finanziamento e alla sostituzione delle strutture sanitarie obsolete o deficienti.


La seconda via è l’accettazione del principio o del concetto (sentito più volte anche da noi) che se la malattia è un fatto privato, la salute è un bene pubblico. E, ispirandoci anche qui a studi apparsi altrove (negli Stati Uniti, ma in particolare in Gran Bretagna dove con la Thatcher fu in parte abbandonata quella politica, che faceva tra l’altro la gloria di quel Paese e che ora, disperati, si ripropone), potremmo dire che quanto la Svizzera è riuscita ad applicare,un tempo, con alto senso comunitario, per la Ferrovia, la Posta o le Autostrade, intese come sottostrutture essenziali ad un servizio pubblico, dovrebbe essere ora applicato anche al settore della salute, bene pubblico.

 

In parole povere e pratiche: la Confederazione finanzi corposamente, ad esempio, tutte le infrastrutture ospedaliere (immobiliari, tecnomediche), contribuendo in tal modo a evitare che i costi di gestione, quantitativi o per miglioramenti e aggiornamenti qualitativi, strozzino gli ospedali o si riversino contabilmente sui pazienti, inalberando i premi delle casse malati. Non è un problema finanziario. È un problema di sanità pubblica e, quindi, di priorità assoluta su ogni altra spesa (e si può immaginare facilmente quale).

Pubblicato il 

12.10.23
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