Accostiamo due notizie-fatti. Sembrerà una stramberia ma non lo è. L’una è la scomparsa, ignorata dai media, di un premio Nobel per l’economia (1987), uno che ha lasciato il segno e una continuità nella cosiddetta “scienza della rarità”. L’altra è la difficoltà in cui la generosa politica federale ha messo l’imprenditore che, posto davanti al fisco, tra un anno e l’altro, non sa se recitare la parte dell’azionista oppure quella del salariato. Apparirà incredibile, ma tra l’una e l’altra, c’è una sorta di denominatore comune: la dignità. Diversamente interpretata.
L’economista premio Nobel da poco scomparso (a 99 anni) è Robert Solow. È stato una figura centrale nelle teorie sulla crescita economica e, in particolar modo, per il suo contributo sull’importanza dell’innovazione tecnologica nel processo della crescita. E sappiamo tutti quanto la crescita, espressa nelle percentuali mensili sull’evoluzione del PIL (il mitico prodotto interno lordo o, per dirla in termini semplici, il valore monetario aggregato di tutti i beni e servizi finali prodotti nel paese in un determinato periodo), sia diventata non solo il termometro della salute economica nazionale, ma la filosofia di vita, la condizione di tutto, l’unica soluzione possibile per ogni genere di crisi.


Ha continuato le ricerche di Solow un altro economista,pure premio Nobel (2006), Edmund Phelps (oggi 90enne). Perfezionandole però con due concetti fondamentali, che sono quelli che ci interessano. Il primo: ciò che conta veramente è l’innovazione che prende vita all’interno di un paese, l’innovazione indigena, che è però quella delle persone partecipanti alla sua economia, con alla base ciò che chiamiamo “soddisfazione al lavoro”. È molto più determinante dell’innovazione data dalle scoperte di “sapienti e navigatori”. Il secondo concetto: la valutazione della crescita fondata sul PIL “è impropria e ingannevole perché ignora l’essenzialità e l’importanza della dignità umana nella formazione della crescita”.


Potremmo riassumere: se non c’è l’uomo-lavoratore con la sua dignità al centro della crescita, non parliamo di crescita. Oppure, ancora più categorico, come amava ripetere un mio saggio professore di politica economica: “Solo economia non è economia”.
Un lavoratore-salariato trova oggi difficoltà a salvare la sua dignità perché è dignità anche quella di riuscire a far quadrare il bilancio familiare. Un imprenditore (ecco qui l’altro tema) è invece tentato a farsi “salariato” per trovare la “dignità” di quella che ritiene una sua giusta retribuzione. Sa di paradosso, come mai? Perché davanti al fisco è costretto, di solito a inizio anno, a una laboriosa scelta tra l’attribuirsi dei dividendi oppure versarsi un “bonus” eccezionale, ma camuffato come salario. La riforma federale sull’imposizione delle aziende gli è venuta in aiuto: infatti, può ora ottenere notevoli sgravi sull’imposizione dei redditi distribuiti sotto forma di dividendi. La scelta del corposo bonus che si fa salario può però rimanere ancora vantaggiosa sul piano delle prestazioni-assicurazioni sociali, tutte deducibili. È vero,contrariamente al bonus-salario, privilegiare i dividendi non gli permette di migliorare il livello della propria previdenza professionale, ma, come diceva quel tale, gallina che non becca ha già beccato. E così, nonostante i Nobel, siamo ancora alla dignità da lavoro sempre da conquistare e la dignità da capitale due volte generosamente concessa.

Pubblicato il 

29.01.24
Nessun articolo correlato