Dietro lo specchio

“Più efficienti diventano: un individuo, un’istituzione o una comunità e più sono convinti di progredire, di ampliare il proprio orizzonte futuro”. E qui sta il busillis avviato all’inizio dell’800 con l’industrializzazione, resa possibile dall’uso dell’energia fossile: l’enfatizzato “progresso”, l’elisir e la conseguente ossessione del capitalismo nello spronare efficienza e produttività. “La grande illusione che progresso industriale e tecnologico illimitato portasse la felicità per tutti, attraverso la soddisfazione di tutti i desideri e ristabilisce la pace sociale e l’armonia dell’uomo con la natura  è oramai incontestabilmente fallita” scriveva nel 1976 Fromm in “Avere o essere”.


Un abbaglio, diventato un “buco nero”, al punto che se non cambiamo imperativamente “registro” inghiottirà la natura esistente e con essa noi esseri umani a cui apparteniamo. Un abbaglio generato da due fattori: a) Ignoranza riguardante funzionamento e sviluppo del sistema biologico terrestre: “Gran parte di ciò che pensavamo di essere come entità biologica − scrive Rifkin − è profondamente errato”; b) teorie, concetti, modelli di sviluppo errati perché non considerano e/o negano le leggi della termodinamica: ogni entità biologica − dalla più minuscola a quella più grande − è dissipativa. Ovvero fa diminuire l’energia disponibile, cioè aumentare l’entropia.

 

I sistemi naturali comportano sempre aumento di entropia, ma come spiega Tiezzi, essi “conoscono molto bene la termodinamica; il rendimento termodinamico dei loro processi è molto alto, ciò comporta entropia ridotta al minimo possibile”. Il segreto di tale straordinaria performance è la coppia: “adattività” e “rigeneratività”. Al contrario i sistemi economici umani, dalla rivoluzione industriale sempre più performanti, puntando sulla coppia efficienza-produttività hanno comportato e comportano una produzione crescente di entropia. Per capire un esempio citato da Tiezzi: “Un umano per vivere deve consumare in 1 anno l’equivalente nutritivo di 300 trote, la trota a sua volta deve mangiare 90.000 rane ciascuna le quali devono mangiare 27 milioni di cavallette, le quali si cibano di 1.000 tonnellate di erba”. Le comunità biologiche risultano di fatto resilienti, contrariamente a quelle della stragrande maggioranza degli umani, accodati al sistema di sviluppo che premia in primis efficienza e produttività.


L’assenza di volontà nel voler abbandonare i principi in auge, e adottare quelli vincenti della “natura” continua a essere dominante nelle “stanze dei bottoni” dei vari gremi (governativi, economici-finanziari): la fissa su Pil, crescita, produttività intossica giornalmente le pagine informative, plasmando e condizionando le menti del cittadino-consumatore.


A 1 minuto dalla mezzanotte urge un cambiamento radicale di paradigma di sviluppo. “L’ordine naturale − scrive Tiezzi − segue altri ritmi, altri tempi. L’uomo non può fermare il tempo, ma può rallentare il processo entropico ed evolutivo, favorendo la transizione a uno stato di produzione minima di entropia e, in ultima analisi, favorendo il futuro della nostra specie”.
E allora in primis, noi umani, quale comunità biologica della terra,  dobbiamo imparare la “lezione” dalle comunità biologiche che praticano la resilienza. Sapendo tuttavia che “resilienza non significa mai ristabilire esattamente lo status quo”. Ma, come spiega Franz Miller dell’università di Melbourne, resilienza significa “imparare a vivere con il mutamento e sviluppare le capacità di affrontarlo, invece che tentare di bloccarlo”.


Siamo − quale insieme della comunità umana − in un momento critico: onde evitare la sesta estinzione di massa possiamo, anzi dobbiamo adottare la strategia delle comunità biologiche extraumane. Giocoforza abbandonare l’efficienza e “aggrapparsi” a resilienza e adattività per riconvertire la nostra relazione con la Terra da un rapporto di espropriazione a uno di riarmonizzazione.

Pubblicato il 

22.06.23
Nessun articolo correlato