America Latina

Sono molte le ragioni che, a posteriori, possono spiegare il fulmine a ciel sereno caduto il 2 ottobre scorso sulla Colombia. Il clamoroso rigetto del referendum sull’accordo di pace, negoziato per quattro lunghi anni nel silenzio discreto dell’Avana fra il governo colombiano e le Farc, Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane, il più antico e radicato gruppo guerrigliero dell’America latina e probabilmente del mondo. Il no ha vinto, sia pure di un niente – 60 mila voti circa sui quasi 13 milioni totali, 50,2% contro 49,8% – e soprattutto in presenza di un livello di astensione incredibile (se non fossimo in Colombia, il paese dei paradossi), il 63%.
Dopo 52 anni di guerra civile strisciante, la pace sembrava a un passo. Il 29 agosto dall’Avana era stato proclamato un “cessate il fuoco bilaterale e definitivo”, il 26 settembre da Cartagena il presidente Juan Manuel Santos e il leader delle Farc Rodrigo Londoño Echeverri, “Timochenko”, avevano firmato l’accordo e celebrato la pace in pompa magna e davanti a una bella fetta di mondo. Il referendum del 2 ottobre sembrava una formalità. Invece è stata la Brexit della Colombia. Uno tsunami.


Ora è di nuovo tutto in gioco, in forse, anche se il ritorno dei guerriglieri nella selva è, almeno per ora, improbabile e lo stesso Timochenko ha confermato che «le Farc ribadiscono la loro disposizione a usare solo la parola come arma di costruzione del futuro». Anche un plumbeo Santos ha assicurato che «non si arrenderà» e continuerà «a cercare la pace fino all’ultimo istante del suo mandato». Ma sapendo benissimo che se il cessate-il-fuoco bilaterale resta vigente, l’accordo in quanto tale non è più vigente.


Se la pace non era il paradiso in terra ma almeno faceva sperare di poter uscire dall’inferno di mezzo secolo di guerra e di narco-guerra – 220-260.000 morti, 45-50.000 desaparecidos, 7 milioni di desplazados, i profughi interni –, la Colombia si ritrova in un limbo pieno di nebbia e di pericoli.
Il referendum ha indicato vincitori e vinti. Lo sconfitto è il presidente Santos (in nutrita compagnia: i partiti di governo, i media, i sondaggisti, il 90% degli editorialisti, la sinistra, l’intellighenzia, le star dello showbiz come Shakira, la comunità internazionale), il vincitore è l’ex-presidente Alvaro Uribe.


Santos aveva puntato tutto sul referendum, che molti del suo entourage e le stesse Farc gli sconsigliavano come mossa troppo azzardata. Lo voleva forse per passare alla storia – lui uomo di destra ed ex ministro della difesa di Uribe – e per vincere il Nobel per la pace. O forse per cercare di rimontare l’alto tasso di impopolarità che lo affligge, ora che l’economia non tira a causa della crisi globale e che è imminente una dolorosa riforma tributaria.


Uribe, l’estrema destra nuda e pura, presidente dal 2002 al 2010, non è riuscito nel suo obiettivo dichiarato, una vera ossessione: annientare le Farc sul piano militare (nonostante i 10 miliardi di dollari elargiti da Bill Clinton con il Plan Colombia). Per questo è stato sempre contro i negoziati avviati all’Avana dal suo ex-ministro. Al contrario di Santos e del fronte del sì, tuttavia ha saputo creare una mobilitazione reale, fondata sulla paura, connettendo il no all’ “impunità con i narco-terroristi” (che aprirebbe la strada al “castro-chavismo” in Colombia) e il no a Santos per le sue nuove tasse, l’attacco ai “valori tradizionali” della famiglia e ai diritti della proprietà privata.


Con Uribe si sono mosse la destra più dura e la magistratura più reazionaria, le mefitiche sette evangeliche che infestano anche la Colombia. E a sorpresa la Chiesa cattolica colombiana che, al contrario di papa Francesco, è stata fin dall’inizio reticente a prendere posizione chiara per il sì (con qualche eccezione, come l’arcivescovo di Cali e i gesuiti) preferendo mantenere una tiepida “neutralità” che non nascondeva la contiguità al no.


Nel limbo in cui si muovono, i tre protagonisti del dramma – Santos, Uribe, Timochenko – dicono tutti di volere la pace e di essere pronti al “dialogo”, a qualche “rettifica” e “modifica”, al “grande accordo nazionale”, magari attraverso una costituente. In realtà Uribe vorrebbe “rinegoziare”, ossia smantellare, tutti i punti più qualificanti. Improbabile, per non dire impossibile, che le Farc accettino.
Ora il futuro è da scrivere e il tempo stringe. C’è anche chi dice che, sotto la spinta dell’uribismo radicale, Santos potrebbe fare la fine di Cameron ed essere costretto a dimettersi prima del 2018.
Peccato. Era una grande occasione per scrivere una pagina di storia. È stato invece un altro brutto colpo per l’America latina che dopo un decennio di rinascita a sinistra sembra avvitarsi sempre più in una deriva di destra.

Pubblicato il 

06.10.16
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