Un anno di Trump

Ha vinto facendo il matto ma una volta entrato alla Casa Bianca, pur mantenendo uno stile originale, tornerà nei ranghi. A Washington, i repubblicani si raccontavano che sarebbe andata così. Sbagliavano: l’anniversario del primo anno di presidenza Trump è stato celebrato da due giorni di default del governo dopo che repubblicani e democratici non si sono messi d’accordo per votare l’emendamento che innalza il tetto del deficit.

Una misura che si vota ogni anno – e che in passato era di routine – da quando il Grand Old Party si è consegnato alla sua ala destra è divenuta oggetto annuale di braccio di ferro in Congresso.


Trecentosessantacinque giorni di corsa sulle montagne russe fatta di ordini esecutivi scritti male, trattative con la sua stessa maggioranza in Congresso che non portano a risultati, polemiche con i media e con senatori e rappresentanti di entrambi gli schieramenti, licenziamenti e dimissioni dalla amministrazione. Il tutto è cominciato il primo giorno, quello dell’inaugurazione, quando il presidente ha polemizzato sulla partecipazione al suo discorso e ha mandato il suo capo ufficio stampa Spence a dire che di gente ce n’era di più che alla inaugurazione di Obama. Si inaugurava così l’era degli alternative facts, della versione fantasiosa delle cose fornita in sala stampa della Casa Bianca.


Nessuna promessa mantenuta
Se si eccettuano la nomina del giudice della Corte Suprema Gorsuch e la riforma del sistema fiscale, il presidente repubblicano non è riuscito a portare a casa nessuna delle promesse elettorali che richiedevano la scrittura di leggi. Non il muro con il Messico, non la riforma del sistema sanitario – «cancelleremo e sostituiremo Obamacare» gridava nei comizi – non la riforma in senso restrittivo dell’immigrazione. Ma nel frattempo ha aperto crisi internazionali, fatto saltare tavoli, si è ritirato da accordi internazionali di commercio danneggiando il futuro degli Stati Uniti in Asia (il Trans Pacific Partnership), ha portato fuori il suo Paese dagli accordi di Parigi sul clima.


È difficile ricordare tutte le crisi aperte, talmente sono. La prima, che generò una protesta spontanea in ogni città americana fu il decreto anti- musulmani, il travel ban che chiudeva le frontiere americane a persone provenienti da una serie di Paesi, comprese quelle persone che lavoravano negli Usa ed erano uscite per motivi di turismo o lavoro. Quel decreto venne ritirato perché palesemente incostituzionale e riscritto mesi dopo. L’ultima è quella documentata dal Washington Post sui “Paesi cesso”, come ha chiamato Haiti e altri luoghi di emigrazione verso gli States. Ma tra il momento in cui scriviamo questo articolo e la sua pubblicazione è probabile che il presidente dal tweet facile ne combini una nuova.


Se si eccettua l’abbandono dei trattati di commercio, una scelta fatta pensando alla base bianca degli Stati dove le fabbriche hanno chiuso (e non torneranno ad aprire), le scelte economiche, le scelte di Trump sono tutte repubblicane doc: meno tasse come leva per l’economia (e chi se ne infischia del deficit), meno regole ambientali. In politica estera invece non si è seguita nessuna traccia, ma un braccio di ferro continuo tra e con i membri dell’amministrazione, con il cordone di sicurezza dei tre ex generali, Kelly, Mattis e McMaster, e il segretario di Stato Tillerson che hanno cercato, spesso invano, di ridimensionare le sparate del “crazy guy” alla Casa Bianca. E gli esperti iraniani e nordcoreani a cercare di capire quale fosse la linea vera, se quella del presidente che twitta contro Kim Jong Il «il mio pulsante nucleare è più grande del tuo» o quella di Tillerson che cerca di far intercedere la Cina nella crisi con la Corea. La decisione di non tagliare del tutto gli aiuti economici all’Autorità Nazionale Palestinese e quella di non uscire dall’accordo nucleare con l’Iran sono il segnale che, nonostante i litigi frequenti, sui temi più scivolosi, Trump si fa guidare da coloro che professano almeno un briciolo di cautela in politica estera. Sullo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme non è andata così. In quel caso non si è trattato di un colpo di testa ma di una scelta politica: corteggiare la parte più fedele della base elettorale che ha votato il presidente, quegli evangelici che legano le fortune di Israele a una dimensione teologica.


Blandire la base
Blandire la base è stato una delle stelle polari del primo anno di presidenza. A prescindere dai risultati concreti ottenuti o dalla importanza delle politiche. Proprio l’ambasciata a Gerusalemme è un esempio perfetto: non era un’emergenza, non una crisi, ma solo una promessa fatta nei comizi. Allo stesso modo dire «tra i suprematisti bianchi ci sono anche brave persone» dopo che uno di loro ha ucciso una persona lanciandosi in auto contro una manifestazione, è un modo per prendere le distanze dall’atto in sé e.... blandire la base.
La base e, soprattutto, la percezione che il mondo ha del presidente sembrano essere state le stelle polari dell’azione di Trump. Per il resto, non ha saputo negoziare con le opposizioni, ha spesso spiazzato o fatto infuriare i suoi smentendoli, incalzandoli o addirittura insultandoli via twitter: tre senatori hanno annunciato che non si ricandideranno, in aperta polemica con il presidente e la deriva del partito repubblicano.
E qui entriamo nell’altro aspetto della presidenza Trump, che nulla ha a che vedere con le politiche, le scelte di politica estera e tutto ha a che fare con la sua personalità improbabile. Trump è narciso, capriccioso, umorale, e durante il 2017 non ha fatto nulla per nasconderlo. Ha bombardato i media che lo criticano o che hanno fatto rivelazioni sui suoi affari o sulla vicenda del Russia Gate chiamandoli fakenews, ha insultato importanti conduttori televisivi parlando del loro aspetto fisico, ha più volte perso la testa di fronte alle notizie sull’inchiesta condotta dal procuratore speciale Mueller sulle relazioni tra la campagna presidenziale e le autorità russe. Nessun equilibrio, nessuno stile presidenziale, ma comportamenti da bambino offeso e tentativo di creare una narrazione nella quale i poteri forti in mano ai democratici sono contro di lui perché sta cambiando l’America in meglio. Una narrazione fatta rilanciando i sondaggi nei quali il gradimento per la presidenza è meno basso, i video di FoxNews in cui si parla bene di come vanno le cose e, appunto, dando dei bugiardi a tutti gli altri. Un presidente che passa le ore davanti alla TV a infuriarsi o compiacersi per come parlano di lui, invece di ascoltare il briefing del mattino sulle crisi internazionali.


In un anno il partito repubblicano ha perso un senatore in Alabama – una cosa inimmaginabile, come per i democratici perdere San Francisco –, diverse elezioni locali dove era tradizionalmente favorito, e il presidente non ha mai superato nei sondaggi il 40 per cento di gradimento. Il minimo storico di sempre. Queste sono le buone notizie. Nel 2018 altre potrebbero (il condizionale è davvero d’obbligo) venire dall’inchiesta di Mueller.

Pubblicato il 

24.01.18